Filippo Giardina, com’è nata l’idea di Satiriasi e soprattutto come mai hai voluto portare la stand-up comedy in Italia?
Mah, per sentirmi meno solo! cominciato tutto vedendo Lenny, film che mi ha rovinato la vita; allora ho pensato che fosse possibile. È partito prima un progetto che si chiamava Non rassegnata stampa nel 2006, per due anni mi sono chiuso in cantina con Mauro Fratini. Poi non è andata bene a fronte culo esagerato; poi ho pensato che servisse un gruppo più ampio. Quindi ho fatto un pó il talebano, ho scritto un manifesto di regole che sono state accettate da tutti. Da quattro anni, il prossimo sarà il quinto, lavoriamo alacremente sulla comicità, sul senso della comicità, sulla tecnica: soprattutto scriviamo a rotta di collo.
L’esperienza televisiva che hai avuto recentemente con il programma #Aggratis, come l’hai vissuta e come mai ti abbiamo visto in così poche puntate?
L’ho vissuta come una grande emozione perché sono stato chiamato dal capo di questo programma, che mi ha detto: «Porteremo la stand-up comedy in Italia, sarà una trasmissione costruita su Satiriasi, sarete voi al centro del programma». Poi piano piano è stato tolto tutto. Dalla prima puntata che facevamo circa una cinquantina di minuti, siamo passati a venti della seconda e alla quarta mi hanno detto: «Dovreste fare tre comici su sei…», ho detto che forse sarebbe stato meglio finirla li. Ma non è nemmeno colpa loro. Noi in fin dei conti siamo prostituiti perché dall’inizio abbiamo ceduto, purtroppo mi sono reso conto che la televisione ti fa cedere sempre di più. Abbiamo conosciuto il nemico e adesso non ci fregano più.
Il pubblico italiano credi che sia pronto ad ascoltare i messaggi di questo tipo di satira?
No. Assolutamente no. Il dramma non è tanto la televisione, non è tanto la mancanza di comici. Il dramma è proprio il pubblico; secondo me l’ironia è morta in Italia. E quindi bisognerebbe fare non so nemmeno che cosa, siamo rimasti agli anni ottanta. Non c’è possibilità di avere successo adesso, l’unica possibilità è farsi odiare e insultare. Infatti l’anno prossimo stiamo pensando a qualcosa per promuovere Satiriasi; perché tanto la gente non ti capisce, non ha termini di paragone e quindi non apprezzerà mai. Poi se un giorno dovessimo andare di moda allora ci sarà tanta gente che non capisce un cazzo che farà finta di dire: «Ah si sono fighi!», ma non ci capiscono, sono tutti permalosi, aprono tutti bocca: Facebook è lo specchio dell’Italia. Se venticinque milioni di persone pensano di avere qualcosa da dire ma non ce l’hanno, perché se uno lavora dieci ore al giorno, otto dorme, poi deve andare in palestra, comprarsi vestiti, probabilmente non ha elaborato un pensiero; però, il sistema gli ha dato illusione che il suo pensiero possa essere interessante e valido. Se vogliamo dare un messaggio pubblico: non lo è. Molti di voi sono nati pubblico e moriranno pubblico.
Parlaci del tuo spettacolo, di come lo hai scritto e da cosa hai tratto ispirazione. Considerando che sarà il numero sette…
Il collezionista di spettacoli! Niente vedendo Lenny c’è una bella scena nel film in cui lui litiga con la moglie e poi si vede lo stacco, lui sul palco che fa un pezzo sui rapporti di coppia. Io penso che sia quella la chiave per evitare di dire banalità, dal particolare all’universale. Cercare di trovare ambiti, aspetti, pensieri della propria vita che abbiano una rilevanza collettiva. Mentre molto spesso la satira è stata fraintesa perché con l’entrata in campo di Berlusconi si è creata comunque un’emergenza, e gli autori satirici hanno smesso di fare satira e hanno iniziato a fare contestazione politica. Questo ha snaturato il senso stesso di Satira che è comunque un gioco, un divertimento, una critica verso qualcosa. Prima parlavamo del pubblico che non ci capisce, perché? Perché quelli diciamo di destra non ci capiscono, quelli di sinistra penserebbero che noi siamo di destra. Se io dico frocio, a me non frega un cazzo, farei un pezzo contro froci solo per dire che siamo nel 2013 e non si può andare avanti con gli uomini, le donne, i transessuali, si dovrebbe iniziare a parlare di diritti della persona; però se evocassi la parola frocio si scatenerebbero quelli che direbbero omofobo, che mi darebbero del Giovanardi. Quindi è una battaglia persa.
Questo è importante, un mantra per chi si avvicina al mondo satirico. Luttazzi ha creato un equivoco gigantesco, non è che non ci siano limiti alla satira. È che, entrando una persona, mettendoci nome e cognome, quindi scordatevi le battute online; le battute sono fascistoidi, qualsiasi forma di battuta, estrapolata dal contesto, rischia di essere una banalizzazione di un concetto più ampio. Quindi raramente una battuta può essere satirica. Può essere comica, divertente, ben scritta ma quasi mai è satirica. L’errore di Luttazzi è che ha detto che ci sono limiti alla satira. In realtà la satira è limitata dall’autore. Se io ho perso mio figlio perché me l’ha ucciso un pedofilo, e io vado a fare battute sui pedofili, anche gravissime, io pago un prezzo; nel senso che ci metto la faccia e lo faccio per esorcizzare un dramma, un dolore. Il problema è invece che adesso sono tutti concentrati sulla tecnica della satira, che è totalmente disgiunta dal cuore, dall’arta. Come se un chitarrista iniziasse a dare due battute sulle corde, non sarebbe il più bravo del mondo. Poi che cazzo ne so Bob Dylan fa tre accordi ed è il più figo di tutti. Lo stesso vale per la satira.
Two Headed Baby di Stanhope è decontestualizzato. Perché lui lo fa all’interno di uno spettacolo di un’ora e lui è un disperato, trasuda il suo essere un perdente e uno sconfitto. E soprattutto, per fare un esempio, lui durante uno spettacolo usa più di venti volte la parola feggot, che è frocio in maniera molto brutta, e poi ad un certo punto si ferma e dice: «Halt! A me non frega niente, se c’è qualche amico frocio io gli farei un pompino adesso!». Cioè lui dice mi diverte la parola, non manda un messaggio razzista; e se l’avesse voluto mandare cazzi suoi, non esiste qualcuno che decide cosa è satira e cosa no. Prima di tutto bisogna far ridere. Poi bisogna vedere come, è il pubblico che dovrebbe dire se fai satira o no.
Domanda da mille punti. Satiriasi pensi che sia uscita con le ossa rotte dall’avventura televisiva?
Satiriasi non è uscita con le ossa rotte perché nasce, esageriamo, come un movimento culturale. Vuole ripristinare il concetto che si deve poter ridere di tutto. La satira o comunque la comicità più controversa, nasce nei paesi che sono in difficoltà economica. Stanhope diceva che difficilmente avrebbe fatto uno spettacolo alle Hawaii perché la gente li è già felice; lui andava a New York. L’Italia è triste quanto New York, quanto Londra, ma da venticinque anni vive sotto una cappa. Prima si pensava fosse una cappa religiosa, in realtà è proprio una cappa culturale. Credo che Berlusconi e tutte le persone che sono andate contro di lui hanno creato un’eccezione mondiale, solo in Italia poteva prendere il 30% un partito che dice mandiamoli tutti a casa. Non credo in nessun’altra parte del mondo sarebbe successo.
Ingoio o Facial?
È difficile rispondere a una domanda del genere. No ma io ci tenevo a mandare questo messaggio: un giorno arriveranno i bocchini! Quest’idea, questa pioggia, come fosse un film surreale; immagina che bello, tutte donne e uomini, che piovono bocchini. Quello sarebbe il nostro successo, non i soldi, non la critica che non esiste. A proposito! Un attentato ad Aldo Grasso lo vogliamo fare?! Sono trent’anni che quest’uomo dispone…a Fiorello a…mandatelo a casa, ecco. Invece di mandare a casa i politici mandiamo a casa Aldo Grasso! Singole persone vanno mandate a casa.
Filippo Giardina