Episodio 4: Il buio oltre la sala
Ecco. Era questa la melma in cui sguazzavamo. Mattina e sera, senza soluzione di continuità. Difficile credere di poter vivere tutto questo senza esserne segnati. Impensabile non cercare di dare dignità al nostro lavoro. Imperdonabile non provare ad educare una massa informe di consumatori senza il minimo concetto di cosa siano le buone maniere. Noi, animi sensibili, eravamo sconvolti da questa sfida impari che ci si parava contro, ma riuscimmo in qualche modo a capire. Realizzammo che l’unico modo per sconfiggere questa dilagante ignoranza che cercava di fagocitarci era spingere all’apice la nostra professionalità, cancellare le nostre sbavature, eseguire un perfetto servizio di cortesia e affabulazione. In sala, certo, perché nel retrocucina le nostre giovani menti, che rischiavano il collasso, dovevano trovare vendetta.
Ora eccomi qui, dietro le quinte, il mio ruolo in tutto questo era quello di lavapiatti per scelta. Dopo stagioni in sala, a contatto con la clientela, non riuscivo più a tollerare, allora “sai che c’è?” laverò i piatti da solo, io e il lavandino, non voglio contatti umani. Ma, va da se, che vedere il mio socio costretto ad affrontare da solo tutto quello di cui sopra mi fece seriamente preoccupare per la sua salute mentale. Di fatto, le sue interminabili notti, passate di fronte allo specchio a menarsi l’uccello, pensando alle avventrici della spiaggia, di regola consorti di uomini di affari locali, lo deperirono nel fisico. Tanto che lo staff del ristorante, imputando questo suo stato a di lui sorprendenti e misconosciute doti amatorie, con enormi pacche sulle sue fragili spalle esclamavano compiaciuti: “Magnece lo pa’ zì!”.
Mentre l’estate gli vorticava intorno, rapida ed incurante, le sue meningi andavano via via liquefacendosi, il suo sguardo, sempre più fisso nel vuoto, non trovava più il pertugio nel quale infilarsi per scappare da una realtà che lo aveva piegato ed abbrutito. Rimaneva ben poco di quell’aitante giovane pieno di belle speranze, oggetto degli appetiti sessuali delle mantidi elpidiensi. In quei pantaloni neri troppo larghi, in quelle camice bianche svolazzanti come tende su finestre spalancate alla tramontana, la sua freschezza scemava, e somigliava sempre di più ad uomo da marciapiede.
Dovevo fare qualcosa, qualsiasi cosa. Così tentai di distrarlo, coinvolgendolo in attività ludiche che lo vedevano protagonista di scherzi di un’ilarità strabordante, come riempirgli le scarpe che avrebbe indossato nel dopo lavoro di scarti di pesce o, che so, bersagliarlo con avanzi di cocomero sulla camicia bianca durante il servizio, e via dicendo. Incredibilmente in lui la scintilla si riaccese, si appassionò a tutto questo e sembrò dimenticare i difficili momenti vissuti in sala. Iniziò a rispondere ai miei atti di goliardia con sue personali trovate, che via via si fecero sempre più pesanti: gettare i piatti da lavare direttamente nel secchio dell’immondizia, cospargere il piano di lavoro pulito di olio, sugo e crostacei masticati dai clienti, scagliarmi contro con violenza patate intere, melanzane intere, zucchine intere, buttarmi i piatti puliti nel solito buzzico lercio dell’immondizia, e così via.
Le nostre giornate passavano spensierate, traboccanti di sana gioia e propositivo spirito nel trovare sempre qualcosa di nuovo per compiacere l’amico fraterno. Succedeva però che la quotidianità in sala era sempre la stessa, gli stessi avventori, la stessa maleducazione, la stessa poca stima in noi stessi che ci infondeva il non essere apprezzati per quello che facevamo. Come l’infante che impara dai sui giuochi, così noi fummo illuminati, e capimmo che non c’era altro da fare che unire l’utile al dilettevole, che si sarebbe inevitabilmente trasformato in delittuoso.
Successe naturalmente, senza premeditazione. Un giorno il mio socio, faccia spenta, si presenta da me ad inizio lavoro e m’informa “Ci sta lu solitu testa de cazzu”. Lo vedevo già appassito, disinteressato ad ogni mio tentativo di distogliere la sua attenzione dalla sua condizione penosa.
Non rispondeva alle mie sollecitazioni, appoggiava i piatti sporchi e se ne andava via mesto.
Decisi che era il tempo delle decisioni irrevocabili. Dovevo scuoterlo, fargli capire che la realtà delle cose non finiva in quella stupida sala da pranzo. Dovevo rendermi protagonista di un atto eclatante. Casualmente il socio si affacciò nella mia postazione con in mano un piatto da portata stracolmo di un sugoso primo di pesce. Lo guardai, lo chiamai, gli chiesi: “Per chi d’è sa robba? Per issu?” lui annuì e, con lo sguardo fisso da schizofrenico, capii che aveva già intuito. Gli ordinai: “Venne qua”. Si avvicinò sornione, sempre con gli occhi sgranati fissi su di me, e, in un serafico mistico silenzio, lo guardai anche io e alzai le mani, guantate di gomma sudicia di pattume, come un chirurgo prima di un’operazione. Strizzai gli occhi come un perfetto Eastwood e, con uno scatto da pistolero, intinsi entrambe le mani nel mucchio di spaghetti striscianti. La sorpresa lo colse alla gola insieme all’irrefrenabile ironia, così tanto che per lunghi istanti non riuscì a respirare. Dopo aver dato una bella mescolata anche in fondo dissi: “Vanne, è prontu”. Le lacrime gli ostruivano le orbite ed una risata convulsa gli batteva in petto, riuscì tuttavia a ricomporsi e a servire la specialità.
Da quel fatidico giorno non riuscimmo più a fermarci. Ogni volta che si presentava qualche ospite sgradito la punizione era automatica: con portamento ferale da maggiordomo integerrimo il socio si presentava da me e io, ligio al dovere, correggevo all’aroma di guanto primi, secondi e caffè. Trascorremmo giornate di interminabile giubilo, pieni, finalmente, di gioia per il nostro lavoro e addirittura impazienti che questo avesse inizio. Fino a quando la cosa non ci sfuggì di mano. Il socio, troppo entusiasta per aver finalmente trovato il senso del suo servire, si lasciò andare in atteggiamenti pericolosi che io notai, ma che, mio malgrado, non riuscii a correggere.
Il segno dell’evidente squilibrio lo notai quando lo sorpresi a spazzare il tagliere del pane con l’abominevole scopa utilizzata per ramazzare il circondario. La sua faccia deformata dalla follia mi fissava mentre le sue braccia continuavano ad andare avanti e indietro. L’operazione aveva ormai perso il suo carattere chirurgico per colpire democraticamente o arbitrariamente chiunque. Ma un fatto mi portò a dubitare delle mie azioni, visto che il mio compare criminale era fuori controllo. Quel fatidico giorno si era ormai al dessert e, come capitava quotidianamente, avevamo messo in atto tutte le nostre pratiche di sabotaggio ma io continuavo a scrutarlo, e lo vedevo impaziente e teso, fin poi a sentirlo armeggiare nell’angolo del sorbetto. Allarmato mi avvicinai e ciò che vidi fece vacillare ulteriormente la mia fede nel prossimo: con sforzi da settantenne catarroso, il socio, paonazzo in volto, tirava su col naso e, con roboante fragore, espettorava l’iniquo viscidume nella poltiglia biancastra al limone che continuava a mulinare nella sua sede, mentre con le mani riforniva i fluts del suo personalissimo latte più. Un capogiro mi prese alla testa. Cercai appoggio in quel caos rotolante in cui all’improvviso si era trasformato il retro cucina. Quello che riuscii a dire fu più o meno: “Ma….ma….ma…..ma…..ma…….ma che cazzu fai?”.
Il socio, in preda a convulsioni e manie di onnipotenza, rideva a bocca spalancata che potevo chiaramente vedere il suo esofago. Imperturbabile, dispose i bicchieri sul vassoio e si avviò, mentre io indietreggiavo inorridito. Rimasi così, immobile, solo, roso dal colossale senso di colpa per aver liberato un mostro dalla sua gabbia. Fino a che nel mio campo visivo apparve candida e giuliva la cuoca che, con passettini misurati, si avvicinava al fetido strumento di morte dove galleggiava pericolosamente inerme il denso abominio. La glottide mi si bloccò di traverso in gola. Non riuscivo più ad associare i pensieri, a dare loro una linearità di causa ed effetto. Pietrificato, sapevo di non poter dire nulla. Di non poter fare alcunché per cambiare il corso degli eventi. Infatti ciò che vidi fu la donna afferrare un bicchiere, posarlo sotto al beccuccio della macchina, aprire il rubinetto, riempire per tre quarti il vitreo recipiente e, nella calura estiva, ingollare il vischioso agrume miscelato con i fluidi corporei del socio impazzito e compiaciuta esclamare un “ahhhhhhhhhh!” di rinfrancante godimento. Gli istanti successivi mi videro, attanagliato da conati, lanciarmi verso il bagno dove, abbracciato il water, vomitai copioso il pranzo, la colazione e la cena della sera prima. Ormai svuotato mi ricomposi e con occhi orribilmente rossi e gonfi tornai sul luogo del delitto, dove vidi il boia, l’impalatore, lo sterminatore del dessert refrigerante, immobile sulla soglia della cucina, da dove aveva seguito tutta la scena, e la sua faccia allampanata mi diede l’esatta misura della sua follia: l’ignominia di cui era stato artefice e la mostruosità che si era succeduta sotto i nostri occhi inermi aveva provocato al socio un coito, un eiaculatio precox, si era venuto nei pantaloni in un’orrenda macchia di viscido liquame spermatico.
Questo è quanto volevo raccontare. Giudicate voi l’accaduto, liberi da ogni pregiudizio. Ognuno di noi, più volte nella vita, è stato avventore di un ristorante, se sgarbato o rispettoso questo solo voi, nel profondo, potete saperlo. Forse non tutti abbiamo vissuto la stessa situazione dalla parte di chi serve, di chi cucina, di chi ci permette di passare dei momenti di relax lontani dalla routine quotidiana. La sola cosa che probabilmente c’è da imparare da tutto questo è che la priorità è il rispetto verso il prossimo, e che qualora decidessimo di assurgere a giudice e boia nei confronti di chi maleducatamente sbaglia, dovremmo aver fin dall’inizio chiaro in testa che le nostre successive azioni, guidate dal nostro insindacabile giudizio, potrebbero essere miopi, colpire degli innocenti e ritorcersi contro di noi nei secoli a venire.
Atticus Finch
P.S. ” Jean Louise Finch alzati in piedi. Sta passando tuo padre.”