Episodio 2: Colonie e Classe Dirigente
Si iniziava presto con i simpatici pargoli delle colonie estive, che a frotte di piccoli hobbit invadevano dapprima la spiaggia, dove le maestrine, in qualche caso, producevano tra il personale dello stabilimento balneare esclamazioni di approvazione quali “Si visto a cosa? …che pezzu de fica!”, o “E’ sempre stata vona.”. Dicevo, le maestrine tentavano di decimare la popolazione della festante e urlante orda di nani abbandonandoli al loro destino tra i flutti del mare forza nove, o lasciandoli a mollo dopo appena un’ora dalla colazione, quando le gelide temperature mediterranee avrebbero provocato un arresto cardio circolatorio in quei piccoli corpicini di operai, capo fabbrica, tagliatori, modellisti, “patrù” in erba. I sopravvissuti, di certo la futura classe dirigente, a metà mattinata, usciti incolumi dalle insidie del mare e dalle temperature africane del sole a picco delle undici, che notoriamente “scalla li pianciti e li pianciti me coce li pe”, si scagliavano come un solo corpo contro il bar dello chalet al grido unanime di “PIZZA PIZZA PIZZA PIZZA PIZZA PIZZA!”.
Dopo aver consumato il pan di via in religioso silenzio, tornavano alla carica più mesti e appesantiti, con quelle vocine acute e discrete ma con un tono comunque perentorio chiedevano “un bicchiere d’acqua di carta per favore”. Qualcuno aggiungeva “della cannella, grazie”. Poi via, direzione kinderspielpatz: un agghiacciante recinto con dentro scivoli, altalene e poco altro, sorvegliato da guardie in uniforme con pastori ringhianti alla catena, dove i funamboli rasoterra venivano proiettati verso l’infinito e oltre o, spinti dai loro stessi compari, si infilzavano nella sabbia da veri virgulti quali erano. Una precisazione sulla sabbia: l’area preposta al divertimento infantile era stata preparata ad hoc perché, come per tutto il resto di porto s.elpidio, la spiaggia era, è, e sarà sempre “de matù”, i quali conferiscono agli sventurati turisti a piedi nudi la classica caracollante andatura gigesca e, come un’infallibile cartina di tornasole, ci indicano con precisione assoluta chi di fatto “non è de lu portu”.
Come ogni essere senziente, anche il socio, alle nove anti meridiane, aveva le sue evidenti difficoltà di approccio col genere umano adulto, figurarsi arginare una caotica folla di imprevedibili gnomi della riviera e le loro richieste secche e inappellabili. I suoi lineamenti cadenti, le borse sotto gli occhi che, vista l’ambientazione marinaresca, potremmo tranquillamente chiamare come tradizione c’insegna “calamà”, indicavano chiaramente i fasti della sera precedente. Dopo essersi scolato gli avanzi alcolici della cena, discretamente dalle bottiglie mezze vuote prima, e direttamente dai calici dei commensali poi, non avendo più nulla da fare, visto che il divertimento elpidiense, come è noto, all’una di notte evapora, si era recato mesto a casa dove, in bagno di fronte allo specchio che lo fissava allampanato, aveva lasciato che la sua mano sinistra, per avere quella sensazione di straniante novità, fosse guidata dall’impellente spinta onanistica che sempre più spesso lo coglieva a quell’ora.
Questo comportamento, fu poi chiaro, era da imputare a quel mix di stress che gli veniva causato dal normale servizio ai tavoli, in concomitanza con il suo venire professionalmente in contatto con signore discinte di mezza età, frequentatrici della spiaggia, che ad ogni occasione ammiccavano al suo indirizzo non facendo mistero dei loro appetiti sessuali da dominatrici frustanti. Il poveraccio si trovava così a dover convivere con fantasie deviate che lo vedevano servire al tavolo, completamente nudo con su solo un colletto di camicia e una farfalla nera, un donnone pettuto, “carcagnu paccatu” da zoccoli lignei con tacco, al quale con il solito savoir faire si trovava a chiedere “Cosa le porto oggi signora?”, e lei di rimando, “Un bel cazzone al vapore, grazie!”, mentre i truci commensali intorno lo schernivano con degli eloquenti “Dagghie co su cappisì!”. Era evidente che l’equilibrio psichico del socio era sull’orlo del baratro, e tutti gli mettevano una mano sulla spalla per spingerlo oltre.
La mattinata scivolava via verso l’ora di pranzo, quando i pargoli ormai grigliati a puntino venivano come pecore ricondotti in gregge verso il trasporto animali comunale, organizzato in pullman gialli con propulzione a carbone, viste le sbuffate nere dei tubi di scarico. Eravamo nella terra di nessuno, tra le dodici e le dodici e trenta, in cui lo staff pranzava, prendeva caffè, fumava e pronti via accoglieva i primi clienti. Le tariffe dei ristoranti della riviera non erano del tutto popolari, vuoi per la freschezza delle materie prime, vuoi per la qualità dei manicaretti, vuoi per la sorprendente capacità commerciale dei titolari di dare loro un colpettino al rialzo durante i periodi di alta stagione, manco fosse la costa azzurra. Questo fatto, in ogni caso, attirava professionisti della zona in enormi macchine blu, manco fossero consoli, non necessariamente imprenditori calzaturieri, che in ogni caso rimanevano il grosso della clientela.
Questi impiegati di concetto delle alte sfere bancarie, notarili, immobiliari e via di questo passo, avevano tutti delle caratteristiche peculiari che li accomunavano: la fretta, l’assoluta mancanza di ironia, la spocchia che ostentava sprezzante superiorità nei confronti del genere umano, quasi fossero ufficiali dell’einsatzgruppen ai bordi di una fossa comune, e la totale mancanza di cortesia. Quest’ultima, forse, caratteristica estendibile a chiunque. Dopo essersi accomodati e aver incassato il flautato “buongiorno signori cosa possiamo prepararvi oggi?” del socio, le prime parole che uscivano da quelle labbra sottili erano “Portami questo primo, veloce che fra mezz’ora devo sta in ufficio”. L’ordinazione girata in cucina era “E’ rriatu cazzo ao, sbrigheteve che fra mezz’ora deve gli a fasse nculà”. Poteva capitare che a volte questi opachi burocrati ordinassero antipasti, per affrontare con leggerezza gli impegni pomeridiani, e bisognava essere pronti ad ascoltare lamentele tipo “Questo antipasto freddo è appena uscito dal congelatore?”, alludendo alla poca freschezza del prodotto, o “Questo antipasto caldo brucia”. Già, è caldo, altrimenti sarebbe stato tiepido, o meglio ancora freddo, ma poi probabilmente sarebbe anche stato pesce di laghi contaminati africani.
Quello che metteva più a dura prova l’equilibrio psichico della cucina tutta, e automaticamente l’aplombe del cameriere che doveva traslare alla cucina stessa l’arroganza del commensale, era riportare indietro un piatto per i motivi più svariati, dal generico ma offensivo “Non è buono”, al più specifico e supponente “Non è cotto”. Ecco. Non potete dire ad un qualsivoglia cuoco che la pietanza che ha preparato uguale per vent’anni non è cotta, perché la naturale risposta sarà: “Non è cottu??? La fica de la madre non è cotta!”, con relativo scroscio di porcellana in pezzi contro il muro.
Altro atteggiamento irritante di questi quotati manager di questa beneamata minchia, era passare la maggior parte del pranzo al telefono, cosa che li escludeva dal presente e dal considerare il cameriere, che invano tentava di attirare la loro attenzione, con quattro cinque piatti in mano, perché capissero che l’unica speranza per loro di mangiare qualcosa era di togliere quei gomiti, inguainati in giacche di lino chiaro, per permettere al malcapitato di poggiare la sua ordinazione con l’unica contorsione possibile. Perché il loro piatto era il primo a dover essere scaricato, quello tenuto su dall’anulare e dal mignolo, quello che tra l’altro scottava, “Te pigliesse un corbu, lea se cazzu de mane!”.
Questo era il tenore di questi pranzi di lavoro, quale fosse il lavoro a parte il nostro non l’ho mai capito, e andava avanti così fino al caffè, che veniva ordinato con uno schiocco delle dita seguito da un perentorio “Caffè!”, fissando ovviamente qualcosa oltre la consistenza del cameriere, come se fosse evanescente, a differenza del suo “Cuscì ce chiami a mammeta” sussurrato tra i denti. Dopo il limite invalicabile di mezz’ora, l’impegnatissimo professionista rimaneva seduto al tavolo, per un’altra buona ora, a dialogare amabilmente con il suo ospite. Tanto che il socio non poteva non esclamare sarcastico “Fortuna che c’avia fuga stu testa de cazzu”.
E il peggio doveva ancora arrivare.
Atticus Finch
Fonte immagine: http://parolesantels.blogspot.it/2011/07/il-sorpasso-dino-risi-1962.html