Pensando alla Turchia, alla sua gente, affiorano spesso immagini legate al rosso del tramonto sull’altopiano, o tra le ombre delle case a ridosso del Bosforo. Con quei personaggi stanchi raccontati da Pamuk, i pescatori che salutano l’alba della città. La sua Istanbul. Abitata da grigie figure, dove i palazzi storici ottomani cozzano con il degrado urbano di una società cambiata troppo in fretta. Di una verginità perduta, raccontata da Süreya nelle sue poesie, dove descrive la nudità della provincia durante il periodo postbellico. Dei pastori che riposavano, sonnolenti, dietro le rocce ai margini dell’altopiano anatolico.
Non dorme più Istanbul. Scossa da due settimane di proteste, partite lunedì 27 maggio con l’occupazione del Gezi Park da parte di centinaia di giovani contro la distruzione dell’ultimo polmone verde urbano. L’abbattimento di seicento alberi per fare posto ad un centro commerciale. La rivolta si è allargata con il passare delle ore. Prima migliaia di giovani si sono riversati nel parco, poi la protesta si è estesa ai lavoratori, ai professionisti e intellettuali; tutti scesi in difesa di Piazza Taksim, simbolo delle manifestazioni della sinistra laica turca.
Il governo del partito islamico Akp, rappresentato dalla figura di Recep Tayyip Erdogan, si è dimostrato implacabile. “La distruzione nel parco non si fermerà – ha intimato lo stesso premier – qualunque cosa facciate”. Al posto della piazza, il progetto prevede, oltre al centro commerciale, la ricostituzione di caserme ottomane e una moschea. La città infatti attraversa da anni una estesa fase di cementificazione che ha trasformato profondamente il tessuto urbano. Al vaglio anche piani faraonici, come l’aeroporto ‘più grande del mondo’ e il nuovo ‘canale di Panama’ che dividerà in due parti lo stretto del Bosforo.
La rivolta si è estesa a macchia d’olio, contro il pugno di ferro del governo in carica, contro la corruzione e la difesa della libertà di espressione. Seppur comprendente molte province, i centri nevralgici rimangono la vecchia Costantinopoli e la capitale, Ankara. I dati degli scontri sono disarmanti. Più di 4,200 i feriti, sparsi per dodici province; 43 dei quali in gravi condizioni e 10 (la maggior parte giovanissimi) accecati in modo permanente dai lacrimogeni. I morti ammontano a quattro. Tre di questi poco più che ventenni, l’altro è un agente delle forze dell’ordine (morto negli scontri di questa notte). I rappresentanti dei dimostranti, che nella giornata di ieri sono stati ricevuti dal vicepremier Bulent Arinc, chiedono che vengano rimossi i capi della polizia delle due metropoli, ritenuti responsabili delle brutalità delle forze antisommossa.
In queste ore la tensione è ancora alta. Un vento caldo soffia sull’altopiano anatolico, fin sulle sponde del Corno d’Oro. Un vento caldo fatto di sogni spezzati e vite infrante, di rabbia e di passione, uno scontro generazionale in difesa del proprio modello di futuro.
Marco Vesperini